LE ORIGINI DELLA PIZZA

Verso la fine del Settecento si incomincia, se non a mangiare, a distinguere in modo particolare la pizza, a Napoli, prima che spicchi il suo volo nel mondo. E la rossa pizza di pomodoro è anche quella che ridà interesse, e richiama l'attenzione su tutte le altre pizze, tra le quali le prime probabilmente erano state quelle con aglio e olio a crudo, o a cotto, quella con mozzarella e acciughe salate, quella coperta di pesciolini minutissimi, detti cicinielli, che sembra anche una delle più antiche. E ancora si parla di una pizza ripiegata a libretto che forse era una sorta di calzone, col suo ripieno. Dobbiamo, ancora, arrivare al 1830 per avere notizia certa dell'esistenza di una pizzeria vera e propria (fino allora i pizzaiuoli avevano solo dei banchi all'aperto) che viene considerata la prima nata a Napoli, detta Port'Alba, perché si trovava a fianco dell'arco che da piazza Dante immetteva in via Costantinopoli. Era una pizzeria con il suo bravo forno rivestito di mattoni refrattari e il fuoco alimentato a legna. In seguito, fu considerato ideale il forno rivestito all'interno addirittura con lapilli vesuviani, più adatti ancora dei mattoni a toccare l'alta temperatura richiesta e ad ottenere le migliori pizze. La pizzeria Port'Alba, molto tempo dopo, divenne un ritrovo di artisti e scrittori famosi; forse fu lì che D'Annunzio, sul piano di marmo di un tavolino, scrisse i versi di una delle più stupende canzoni napoletane: A vucchella. E tra i frequentatori illustri fu, certo, Salvatore di Giacomo, che pure alla pizza ha dedicato più volte i suoi versi. Del resto sono tanti i poeti, gli scrittori, i musicisti che in epoca moderna alla pizza hanno dedicato qualche favilla del loro ingegno e del loro estro. Se ne occupò anche estesamente il padre dei Tre Moschettieri, Alessandro Dumas, nel corso di una serie di suoi scritti di viaggio: una sorta di servizi di inviato speciale, raccolti nel "Corricolo". Dumas mise insieme, sulla pizza, osservazioni acute e informazioni cervellotiche. Scrisse, ad esempio, che "la pizza è una specie di schiacciata come se ne fanno a St. Denis: è di forma rotonda, e si lavora con la stessa pasta del pane. A prima vista è un cibo semplice: sottoposta a esame, apparirà un cibo complicato". Aveva ragione, e quel riferimento alle schiacciate di St. Denis ci conferma che una sorta di pizza è cibo universale: mentre un certo modo di cuocere e di guarnire il disco di pasta è invece tutto napoletano, ed è quello che ha conquistato il mondo. Dumas ricordava anche i vari tipi di pizza: i più comuni, quindi, nella prima metà del XIX secolo; e cioè all'olio, al lardo, alla sugna, al formaggio, al pomodoro, ai pesciolini (i cicinielli, appunto). E dichiarava, tranquillamente, che c'era anche una sorta di pizza detta "a otto" che si cucinava una settimana prima di mangiarla. Aveva preso una grossa cantonata, la pizza a otto, istituzione rimasta a lungo, forse ancora in auge ai nostri giorni, voleva dire che la pizza si mangiava subito ma si pagava a otto giorni di distanza, anche se questa facilitazione costava in vero un qualche sovrapprezzo. Finalmente, si parla molto di pizza anche in una celebre opera "Usi e costumi di Napoli" di un autore di nome francese: il De Bourcard, che però era del tutto napoletanizzato e che si valeva comunque dell'aiuto di un superesperto - diremmo oggi - il cavalier Emanuele Rocco. Siamo verso la metà del XIX secolo, ormai, verso il 1850, cito dal testo: "La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perché si fa col fiore (di farina) e perché è una specialità dei napoletani, anzi della città di Napoli (sentite il giusto orgoglio patrio e la sottile polemica). Prendete un pezzo di pasta (da pane), allargatelo o distendetelo col matterello o percuotendolo con le palme delle mani, metteteci sopra quanto vi viene in testa, conditelo di olio o strutto, cuocetelo al fuoco, mangiatelo, e saprete che cosa è la pizza. Le focacce e le schiacciate sono alcunché di simile, ma sono l'embrione dell'arte". Poi anche questo testo enumera le varietà di pizza più in uso: e sono quelle con aglio e olio, a cui si aggiungono origano e sale; con formaggio grattugiato, strutto, basilico; oppure con pesce minuto; altre ancora con mozzarella, con prosciutto, arselle; e compare, ma non in funzione di primaria importanza, il pomodoro. Così arriviamo alla fine del secolo, con un episodio celebre, che bisogna pur raccontare nei suoi veri termini. Siamo, esattamente, nel 1889. Quella estate il re Umberto I con la regina Margherita la trascorsero a Napoli, nella reggia di Capodimonte, come voleva una certa regola della monarchia, per fare atto di presenza nell'antico regno delle due Sicilie. La regina era incuriosita dalla pizza che non aveva mai mangiato e di cui forse aveva sentito parlare da qualche scrittore o artista ammesso a corte. Ma non poteva andare lei in pizzeria, la pizzeria andò da lei; cioè fu chiamato a palazzo il più rinomato pizzaiuolo del tempo, don Raffaele Esposito, titolare della rinomata pizzeria Pietro il Pizzaiuolo, che si trovava alla salita Sant'Anna, a pochi passi da via Chiaia. Don Raffaele venne, vide e vinse, utilizzando i forni delle cucine reali, assistito dalla moglie donna Rosa, che era poi la vera maestra di pizze, la vera autrice sia di quelle classiche che furono presentate ai sovrani (le cronache del tempo ci hanno informato di tutto): una con sugna, che è una sorta di strutto, formaggio e basilico; una con aglio, olio e pomodoro, sia di una terza con mozzarella, pomodoro e basilico, cioè con i colori della bandiera italiana, che entusiasmò in particolare la regina Margherita, e non solo per motivi patriottici. Don Raffaele, da bravo uomo di pubbliche relazioni, colse a volo l'occasione e chiamò questa pizza alla Margherita, il giorno dopo la mise in lista al suo locale ed ebbe, come si può immaginare, innumerevoli richieste. Poi la storia si riseppe anche fuori Napoli, e la pizza alla Margherita si diffuse, furoreggiò un po' dovunque. E questa è storia vera; solo che la pizza alla margherita o pizza margherita, come si incominciò a chiamarla, passava per una novità, una invenzione vera e propria, mentre si sa che esisteva già prima. Non era considerata tra le più classiche e importanti, però a Napoli si faceva già. Per esempio, per un'altra regina, la borbonica Maria Carolina, che di pizze era ghiotta, tanto che aveva voluto a corte, nel palazzo di San Ferdinando, un forno apposito. Carolina amava molto quella pizza bianca, rossa e verde; ma forse, se avesse potuto immaginare che quelli sarebbero stati i colori dell'Italia unita sotto un'altra dinastia, che avrebbe cacciato la sua, non ne sarebbe stata più tanto entusiasta. Certo è che la margherita ha contribuito non poco a diffondere la pizza napoletana prima nel nord d'Italia e poi ovunque nel mondo. Le due pizze che hanno fatto più strada sono la cosiddetta napoletana, uguale alla margherita ma con l'acciuga; e la stessa margherita. Però storicamente, l'abbiamo visto, altre precedono e vantano patenti di nobiltà, di autenticità partenopea. l utto questo, beninteso, senza prese di posizione in un senso o nell'altro: le pizze ormai sono di tantissime specie, e sono tutte entusiasmanti.